Bruno Tognolini

GIULIA ORECCHIA

Questa storia mi è stata chiesta da due amici attori, Maurizio Cardillo ed Elena Musti, per certe loro letture d'attore che conducono, mirabilmente, nelle biblioteche per ragazzi. Maurizio mi parlava di una sua ricerca sui suoni, i loro nomi, le loro valenze narrative: e mi chiedeva un racconto utile a coinvolgere i bambini ascoltatori su questo argomento.
Ed eccolo.


Questa è la storia di una bambina che aveva due grandi orecchie.
Vento che soffi, zitto: lasciami dire bene ciò che accadde.
Questa bambina, che si chiamava Giulia, aveva due orecchie grandi per davvero: a sventola, a portiere di macchina aperte, a Dumbo elefante volante, a tutto quello che la gente dispettosa dice alla gente orecchiuta in questi casi.
Ma a lei alla fine, di tutti i soprannomi, restò soltanto uno: Giulia Orecchia.

Giulia Orecchia, quando era piccolina, non si rendeva neanche conto della cosa. Giocava con le orecchione gigantesche come i bambini giocano con tutto: piegandole avanti e indietro, strizzandole a straccetto, riempiendole di nastri con fiocchetti.
Ma il gioco che le piaceva di più, a dire il vero, era usarle per ciò per cui son fatte: per giocare a sentire.
Chi ha due grandi mani acciuffa bene il mondo, chi ha due grandi gambe fa passi di cicogna, chi ha due grandi occhi ci vede in pieno buio: chi ha due grandi orecchie magari si vergogna perché si sente buffo oppure brutto, però ci sente bene e sente tutto.
Giulia Orecchia sentiva i temporali da lontano, avvicinarsi avvicinarsi piano piano, quando intorno il grande giorno era ancora così radioso di bel sole che nessuno avrebbe detto: pioverà. Lei invece girava un po' la testa, con le conchiglie radar puntate all'orizzonte, stringeva gli occhi per sentire meglio, e diceva alla mamma: - Sussurra.
Dopo dieci minuti: - Bisbiglia.
Dopo dieci minuti: - Borbotta.
Dopo dieci minuti: - Romba.
E dopo altri dieci gridava felice: - Spara! Scoppia! Scroscia! Scroscia!
E in quel momento era scoppiato il temporale.
Poi sentiva i motori delle auto, ma così bene, così chiari, così forti che sapeva riconoscere le macchine le une dalle altre, e dire: questa è la macchina di mamma, questa è un'Alfa Romeo, questa è una giapponese, questo è l'autobus ventisette, questa è la polizia.
E se vi sembra impossibile, perché a voi i motori delle auto paiono tutti uguali, allora pensate questo: che alle macchine, se avessero le orecchie, le nostre voci parrebbero tutte uguali, proprio come le loro paiono a noi. E invece le nostre voci son diverse, e se volete far l'esperimento, fate così: uno si mette con la faccia al muro, i suoi amici si avvicinano alle spalle, e uno alla volta apre la bocca e dice "aaaaa". Senza dire parole, perché le macchine non ne dicono, solo la voce che fa "aaaa", come un motore. E vedrete che direte: questo è Carlo, questa è Chiara, questo è Francesco, ad uno ad uno li riconoscerete.
Così faceva Giulia, con le voci delle auto nella strada.
E poi Giulia sentiva così bene, che sentiva cantare il suono del silenzio, anche se quel silenzio era lontano. Lei abitava in città, e in città, come sapete, il silenzio non c'è proprio mai. Anche ora, se stiamo in silenzio e ascoltiamo, ciò che sentiamo cos'è? Io sento: motori di macchine lontane, il ronzio del mio computer qui davanti, qualcuno che si muove di là, nell'altra stanza, il canto del vento (vento stai zitto, lasciami raccontare!). E voi, se state proprio tutti zitti, cosa sentite ora? Sentite silenzio?
Bene, ora pensate questo: immaginatevi in mezzo alla città, al decimo piano di qualche palazzo alto, in un balcone: e lontanissime vedete le montagne. Di sicuro su quelle montagne c'è un profondo silenzio, altro che qui. Beh, Giulia Orecchia quel silenzio lo sente da qui! Oltre le strade e i rumori delle auto! Come noi le montagne lontane le vediamo da qui, Giulia il loro silenzio lo sente da qui. Lei sente bene come noi vediamo!

Insomma, è inutile fare ancora tanti esempi: Giulia Orecchia ci sentiva proprio bene.
E un giorno, quando aveva sette anni, fece un sogno: sognò un vecchino cieco, che aveva tanto e tanto camminato da conoscere ormai ogni cosa del gran mondo. Ma siccome era cieco, e non aveva mai visto niente, il mondo lo conosceva coi rumori. E questo vecchino rideva, e diceva così:
- Giulia Orecchia, Giulia Orecchia
Senti senti la voce vecchia
Cerca cerca il Tamburo Nascosto
Che suona suona in ogni posto!
E ridendo, com'era venuto nel sogno, dal sogno se ne andò.
Giulia rimase colpita, e anche commossa perché quel vecchino assomigliava parecchio al suo caro Nonno, a cui lei era molto affezionata, e che invece era morto un anno prima.
Fatto sta che quel sogno non lo dimenticò, e anzi da allora cominciò a stendere le sue grandi orecchie più che mai, in ogni valle, in ogni strada, in ogni posto, in cerca del misterioso Tamburo Nascosto. Lo cercò, lo cercò, lo cercò...

Lo cercò nelle terre del primissimo mattino.
Qui abitavano rumori freschi e fini, che giravano con una giacchetta tra il rosa e il celeste, ed erano quasi sempre di ottimo umore: più che altro Uccellini, Serrande e Canzoni, Radioline, Venticelli e Portoni, Fischietti e Sbadigli.
A loro Giulia chiese:
- Avete mai sentito, da queste parti, il Tamburo Nascosto?
- Mai prima di adesso! - risposero i tipetti ridenti, e scapparono via.
"Mai prima di adesso"? Ma cosa vorrà mai dire? Giulia Orecchia ascoltò ancora un poco di quel bel posto allegro, e se ne andò.

Poi cercò nelle terre del bosco, dove abitavano rumori pelosi o squamosi o piumosi, che si chiamavano Muggiti, Grugniti, Bramiti, Belati, Latrati, oppure Schiocchi, Sibili, Trilli, Fischi e Zirli. Senza contare settanta diversi Ronzii. A tutti questi rumori con nomi buffi, e con facce più buffe ancora, Giulia fece la stessa domanda:
- Avete mai sentito, da queste parti, il Tamburo Nascosto?
- Sempre, in ogni istante, dappertutto! - le risposero loro, e correndo volando strisciando scapparono via.
"Sempre, in ogni istante, dappertutto"? Ma cosa vorrà mai dire? Giulia si grattò un po' una grande Orecchia, si ascoltò un altro po' intorno, e se ne andò.

Poi cercò nelle terre della notte cittadina.
Qui, a dire il vero, ebbe un po' di paura: c'erano in giro dei suoni con certe facce! Dalle macchine che viaggiavano di notte, coi finestrini aperti, venivano fuori delle specie di scimmioni tutti in fila, senza occhi, tutti uguali, con le facce cattive e cretine. Che per esempio facevano: "Tùnci tùnci tùnci...", e avanti così. Ma per fortuna poi veniva il verde, e quei mostri scappavano via, a far danni da qualche parte della notte.
Allora però si sentiva colare da mille finestre una specie di minestra di rumori, fatta di pezzi di teste e sorrisi e vestiti e pistole e porte e sirene e risate e orchestre: ma tutti passati come al macinino, sbriciolati fini fini e mescolati.
A farla breve, in questo regno di suoni dell'orrore a Giulia passò la voglia di chiedere niente, e le venne addirittura un po' di nausea. Per cui se ne andò.

Cercò allora nel Posto del Sonno, e qui trovò.
Il Posto del Sonno era un bel posto buio, che lei conosceva, ma non sapeva bene dove fosse: quando voleva bastava addormentarsi, e si trovava lì, senza sapere come mai ci era arrivata.
Non era il Posto dei Sogni: era il Posto del Sonno. Forse le piaceva tanto perché faceva rima col Nonno, e al suo Nonno quel posto assomigliava: zitto, lento, strano, ridente, sapiente. E per parlare col suo Nonno lei ci andava, dopo che lui era morto, ad ogni notte, e lo trovava sempre lì, come un abbraccio.
Ed eccolo anche stavolta: si gira, si rigira - che Sonno! Ciao Nonno! - si volta, si rivolta... ascolta...
E sarà stata la testa sul cuscino, un modo insolito di pigiare quelle orecchie, o il sangue che girava in modo strano, o chissà cosa: fatto sta che cominciò a sentire un rumore nuovo, un suono dolce che si sentiva dappertutto, come di buffo tamburo, battuto con un bastone morbido, e che non si fermava mai mai. Allora si mise una mano sul petto, e anche la mano sentì cantare quel Tamburo.
E allora Giulia capì, e dormì, e sognò.
Il Nonno, in uno di quei lunghi pomeriggi cittadini, in luglio, prima di andare in ferie al mare, le diceva una bella poesia, che faceva più o meno così:

Ta-bum ta-bum, ta-bum
Ma dove sei nascosto
Tamburo che io sento
Suonare in nessun posto
Non mi vedi, padrone
Perché sono il bastone
Il tamburo sei tu
Ta-bum ta-bum, ta-bum

Se fai la prova e batte anche a un piede solo
Ad occhi chiusi poi batte lo stesso
Batte lo stesso perfino a testa in giù
Ma se corri e rincorri come adesso
Batte ancora di più

Ta-bum ta-bum, ta-bum
A un anno è piccolino
è come un moscerino
Ma quattro anni dopo
è svelto come un topo
A dieci anni è matto
E furbo come un gatto
A venti anni ha fame
E sonno come un cane
A trenta ha il mondo in groppa
Cavallo che galoppa
Cinquanta è un lento bue
Va per le strade sue
A settanta è pesante
Come un vecchio elefante
E dopo?
Chi viene dopo l'elefante?
Dopo di lui c'è solo la balena
Che fa zampilli nella luna piena

Ciao Giulia Orecchia. Ciao Nonno Balena.
E adesso puoi soffiare, vento, perché ho finito.



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Questa pagina è stata aggiornata il 28 settembre 1997

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