Rime e ragionamenti sulla Sardegna


Foto di Mario Sollai, dal sito www.coronadelogu.com


Nel febbraio 2009, in occasione delle elezioni regionali sarde, dagli avi che si levavano nel sangue e dalle nefandezze che si levavano davanti agli occhi mi sono sentito chiamato a dare un aiuto, per ciò che so fare. Ho scritto una Tiritera elettorale di incitamento prima delle elezioni e una Lettera a Renato Soru, di conforto per i suoi sostenitori più che per lui, dopo di esse.
Nelle settimane seguenti ho collaborato alla fondazione di un forum di discussione dal magnifico nome prescelto da Michela Murgia, Corona de Logu (www.coronadelogu.com); il termine designava un'antica istituzione sarda, un consesso di anziani che sorvegliava l'operato dei "Iudikes" nei Giudicati, le entità statuali autonome che ebbero potere in Sardegna fra il IX ed il XV secolo.
Ho partecipato alle discussioni su quel sito per un solo mese. Poi, per il solito tempo tiranno, spinto da altri impellenti compiti ho dovuto abbandonarle. Ma non solo per quei motivi, a esser sincero: anche perchè nel frattempo un severo consesso di voci, quasi onorando quel nome di cerchio d'anziani, aveva occupato il forum con salmodie solenni e talvolta aspre su indipendenza, lingua e identità sarda. Discussioni che mi hanno scosso, appassionato e per qualche strano motivo, che quando verrà il tempo capirò, rattristato. Ma altre aule e sale, biblioteche e librerie sparse per tutta Italia mi chiamavano ogni giorno a dire e a rispondere su altre lingue e indipendenze, su resistenze a altri oppressori che la lingua italiana.
Mi restano due o tre interventi (ho imparato che si chiamano "post"), che portano il segno di quella passione, sofferenza e insofferenza, e che per amore di archivio qui riproduco. Avverto che alcuni e in alcune parti (soprattutto quello intitolato "Basta, dichiaro cixiri") potranno essere poco chiari ai "continentali" oltre che, in taluni passaggi, assai poco eleganti.


  • Duruduru elettorale, filastrocca scritta prima delle elezioni regionali in Sardegna del febbraio 2009
  • Lettera a Renato Soru, scritta dopo quelle elezioni


  • CONTRIBUTI AL SITO DI DISCUSSIONE "CORONA DE LOGU"
  • Speriamo che mio nonno non torni dalla tomba
  • Basta, dichiaro cixiri
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    TIRITERA ELETTORALE SARDA

    Una tiritera (in sardo "duruduru") scritta in occasione delle elezioni regionali in Sardegna, febbraio 2009
    pubblicata su L'Unità Online, e sul sito di Renato Soru, coi commenti dei lettori

    (risorse non più reperibili online)


    Noi siamo piccoli, noi siamo sardi
    Piccoli uomini che fanno lunghi sguardi
    Passano i secoli, con piccoli passi
    Noi siamo piccoli però non siamo bassi
    Non siamo bassi perché in cuore siamo scalzi
    Non ci mettiamo né tacchi né rialzi
    Noi stiamo zitti
    Guardiamo il mare
    Secoli fitti che si vedono arrivare
    Arrivano dal mare
    I soliti Baroni
    Arrivano dal mare i Presidenti ed i Padroni
    I sardi sono piccoli
    I grandi sono fessi
    I nomi son diversi ma i Baroni son gli stessi
    Arriva da lontano per dirci chi votare
    È un Barone
    Non si riesce a moderare
    I sardi sono arcaici
    Con sopracciglia folte
    Per farcelo capire lui ritorna nove volte
    Cannoni di sorrisi
    Granate di parole
    Se siamo piccoli, però, perché ci vuole?
    Se siamo piccoli, però, di che ha paura?

    Ha paura
    Del mulo pelle scura
    Ha paura
    Dell’asino nascosto
    Del cuore di quest’isola che sta in un altro posto
    Di qualche spaccatura
    Che sta nascendo altrove
    Di qualche mulo che si sveglia e che si muove
    Di qualche cosa che lo faccia moderare
    Gli sappia fare guerra
    Lo metta a piede in terra
    Qualcosa che è lontana, che a Roma non si sente
    Però quest’isola
    È un altro continente…
    Noi siamo piccoli
    Col pepe nelle vene
    Noi siamo piccoli però guardiamo bene
    Si va a votare
    Da chi farci comandare
    Però c’è un modo strano di rispondere ai comandi
    Noi siamo piccoli
    Ma abbiamo gli occhi grandi
    Guardate bene, sardi
    Io guardo e miro
    Guardate bene, sardi
    Io guardo e spero

    Se si può fare
    Un presidente nero
    Si può fare anche un presidente vero
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    LETTERA A RENATO SORU

    Una lettera scritta a caldo, il giorno dopo la sconfitta elettorale di Renato Soru, 17 febbraio 2009,
    pubblicata su L'Unità Online, e sul sito di Renato Soru coi commenti dei lettori



    Presidente Renato Soru

    So che probabilmente avrà ben altro da pensare, oggi.
    Ma mi stava a cuore scriverle subito, sul ferro caldo della sconfitta sua e nostra, per dirle due cose.
    La prima può parere inutile e puerile, ma non lo è. Piangere compiutamente la sconfitta è importante quanto gioire legittimamente per la vittoria.
    E allora la prima è questa: mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace. È importante dirlo.
    Più di quanto mi sia dispiaciuto altre volte, per le tante altre sconfitte, di cui ormai abbiamo panoplia e galleria. Mi dispiace di più, stavolta, forse perché ho "preso parte" in prima persona, ho contribuito con scritture e letture alla sua battaglia. Ma non solo per questo: anche perché, facendone parte, ho potuto sentire un’onda di energia, una vampa inconfondibile di presenza, che non sentivo da anni. Mi dispiace che quella vampa non sia bastata, neanche stavolta.
    Non è bastato, dannazione, ma è servito. Per capire o confermare una visione.
    C’è una tribù dispersa, in giro per l’Italia, distratta e distante, una Compagnia di solitari in esilio dentro i propri cammini, come i Raminghi del Signore degli Anelli, che ostinati procedono in silenzio nell’attesa che passi la nottata. Quella nottata che a ogni sconfitta pare allungarsi, e di cui oggi, sarà pure illusione del lutto, ci sembra di non vedere più la fine.
    Ci sono ovunque questi Raminghi, in tutta Italia: io li incontro nei miei giri incessanti per scuole e biblioteche e comuni, sono insegnanti e scrittori e dirigenti scolastici e bibliotecari e librai e tanti altri. Altri li incontreranno in altri mondi, ingegneri, medici, studiosi, giornalisti, giuristi…
    Una parte, una sotto-tribù, la parte sarda di questa Compagnia Dispersa, si è radunata nelle scorse settimane attorno a Renato Soru. Ciascuno ha tirato fuori sotto la luce del sole le sue idee, che custodiva in silenzio in attesa di momenti come questo. Ciascuno ha tirato fuori le sue armi, cioè la perizia nel dare forma a queste idee. Forma verbale, musicale, poetica, politica, concettuale: le armi che usava ogni giorno nel suo solitario cammino. E queste forme, queste armi di linguaggio e cultura, scoperte al sole, hanno mandato un confortante sfavillio.
    Può sembrare consolatorio sgranare ora il rosario dei distinguo, il "quantitativamente" e il "qualitativamente". Può sembrare inutile: nelle elezioni vince la quantità, non la qualità. Ma se è consolatorio è ben giusto che lo sia: consolarsi è sana e legittima cura, dopo i rovesci. E grandemente consola poter dire che la qualità etica ed estetica, intellettuale e artistica e umana dei Raminghi che Renato Soru raduna intorno a sé è molto alta.
    E forse il sottile invisibile gioco della quantità con la qualità non è solo consolazione, non è inutile mascheramento, ma al contrario può celare sorprese per il futuro.
    Ora molti di questi Raminghi, molti di noi, torneranno nei loro cammini dispersi, torneranno in sonno. Ben svegli e attivi, beninteso, in questo sonno. Io per esempio non mi sono mai fermato, posso dirlo senza rischio di enfasi, come nota di fatto. Non ho cessato mai di combattere contro la miseria culturale, contro la cattiveria impoverita, libro per libro, incontro per incontro coi lettori, puntata per puntata di Melevisione. Ognuno tornerà nella sua contea, a combattere la sua battaglia, solitaria o con pochi compagni di imprese. Ma per la Compagnia – e uno scrittore sente in modo curioso queste parole – ora è il "sciogliete le righe".
    E qui viene la seconda cosa, Presidente, che le volevo dire.
    Non c’è molto di onorevole nell’offrire la propria opera a un vincitore; è più decoroso offrirla a uno sconfitto. E allora sappia, Presidente Soru, che quando i tempi lo consentiranno, alla minima schiarita nella notte, quando lei riterrà che sia giunto il momento di richiamare a raccolta la Compagnia dei Raminghi, per quello che posso fare e che so fare, io ci sarò.
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    CONTRIBUTI AL SITO DI DISCUSSIONE
    "CORONA DE LOGU"



    Speriamo che mio nonno non torni dalla tomba

    Pubblicato il 28 febbraio 2009 (oggi non più reperibile) nella categoria LIMBA del sito www.coronadelogu.com

    Sono un sardo di madrelingua italiana, categoria fondata demograficamente, forse presto teoreticamente, e spero mai politicamente. Mi ci sono volute tre letture per comprendere nella sua preziosità, e senza il fedele ditzionàriu online, la Pìstola Editoriale di Giancarlo Porcu. Quando l'ho ben capita, dentro di me ho tirato giù il cappello. Il piacere di quella lettura e lo stimolo della bella discussione che l'ha preceduta mi hanno spinto a scrivere un ragionamento e un racconto.
    Eccoli.


    I versi che fanno i neonati, che la mamma echeggia e rimanda sistemati in sillabe e poi in parole, formano grado a grado la Mamma Lingua, lingua della Matria.
    Le parole e le frasi di questa Mamma Lingua, quando il bambino va a scuola, vengono echeggiate, sistemate in ortografia e restituite dalle maestre per creare il Babbo Linguaggio, la lingua della Patria.
    Da come Mamma Lingua e Babbo Linguaggio si uniscono dipende la fecondità della Lingua Personale di un individuo, la sua ricchezza o povertà comunicativa, in qualsiasi campo egli viva e parli o scriva.
    Mio nonno Francesco Sotgiu (detto Ciccìtto: Ztitzìttu?), maestro nuorese – e dire maestro in quelle ere e in quelle lande era dire professore e anche di più – mi fu indicato per tutta l'infanzia come modello e archetipo maschile più che mio padre Angelo Tognolini, cagliaritano figlio di un valtellinese. Nonno Sotgiu era stato fascista: qualcuno dei nostri nonni lo sarà pur stato. Di lui sentivo dire che era un "fascista in buona fede", e che non amava parlarne. In realtà non ne parlò mai. Ma io seppi che aveva prestato servizio in Africa. Visse per lunghi decenni nel Corso Vittorio Emanuele, a Cagliari, in vista di Piazza Jenne, nella casa in cui le sue figlie sposate tornavano a partorire, e in cui io stesso son nato.
    Decenni prima aveva girato a cavallo la sua stessa Barbagia per estirpare la Mamma Lingua Sarda e ficcare a scappellotti il Babbo Linguaggio Italiano, la Lingua Patria, nella testa pidocchiosa dei pitzinnos. Eppure venerava la sua terra, componeva muttos in lingua nuorese per Nonna Rosella, sua moglie maestra, io li ho letti ed erano belli. Insegnava l'italiano non perché era fascista, ma perché era maestro.
    Torno spesso in Corso Vittorio, che pullula di africani, e vado in pellegrinaggio al numero 40, che ora ospita una specie di residence per stranieri. Una volta ne ho visto uscire un nero enorme, vestito della sua variopinta veste nativa lunga fino ai piedi.
    E ho pensato: speriamo che mio nonno non torni dalla tomba.
    Vedrebbe il Negus suo nemico d'un tempo che ora abita in casa sua; e vedrebbe il sardo, che lui da maestro ha estirpato a forza dalle teste dei bambini, rimesso a forza in quelle teste da altri maestri.
    Tornerebbe nella tomba pensando di aver vissuto invano.
    Forse direbbe: poveri tempi. Povere lingue. Povere teste.


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    Basta: dichiaro cixiri

    Pubblicatoil 5 marzo 2009 (con poche varianti) nella categoria LIMBA del sito www.coronadelogu.com

    NOTA PER I LETTORI CONTINENTALI. Nella rivolta guidata da Giovanni Maria Angioy nel 1794, e sfociata nella Cacciata dei Piemontesi, diventa discriminante la lingua: chi non sa dire "cixiri" viene cacciato ("cixiri" = "ceci", con la X pronunciata come la J del francese "jambon"). Parola d'ordine della rivolta fu infatti "nara cixiri" (= di' ceci).
    "Signor Tognolini, se io avessi saputo che in questa corona de logu (Michè traduci anche questo, il signore non sa cosa è la corona de logu) si poteva soltanto scrivere in italiano..."
    (da un post di Nanni Falconi sul sito www.coronadelogu.com; la "Michè" chiamata a tradurre è Michela Murgia, scrittrice e webmaster del sito)

    Basta, aquesto punto dichiaro cixiri, Nuxis, Foxi, Puxeddu, Maxia...
    Perché questo è il vero problema, adesso l'ho capito, finalmente!
    Ecco l'ubi consistam, il where I belong!
    È il contrario di ciò che l'amico Falconi sostiene qui sopra: io non sono un signore!
    Facciamoci su quattro risate e state a sentire.

    Io non sono un signore, questo è ciò che ci divide, non il mare.
    Quando scrivo in italiano (cioè quando scrivo, cioè sempre) sì: il mio è un italiano da signori.
    Ma quando dico cazzate, da solo a casa mia, quando canticchio o faccio lo scemo fra me e me, no. Viene fuori un sardo, il mio sardo, che non è da signori, per niente!
    Chi ha scritto quegli articoli còlti in sardo còlto sì che è signore, loro sì. E pensare che quando venivano a Cagliari a studiare con me, al Dettori, erano solo maioli biddunculi: i miei compagni di Tonara, di Lodè... Forse ora si stanno vendicando. Ahi, che terra di vendetta! Perché io allora ero un signore agli occhi loro: mischino di me, figlio di ragioniere dell'ufficio acquedotto di Cagliari e di maestra che insegnava nel Sulcis. Però... Oh! Casteddaiu!
    Casteddaio burdo, dichiaro cixiri, sì!
    Ski-lellè di Via Firenze, angolo Via Pineta, non lontano dallo stadio Amsicora, dove andavo a vedere segnare Riva e Domenghini. Nenè noi skillellè lo prendevamo per il culo dicendo che correva così tanto sulle fasce laterali perché era abituato con la lancia in mano rincorrendo gazzelle. E quelle lance, così vicini eravamo all'Africa, noi a Casteddu non voi de is biddas, che quando arrivavano scagliate dai negroni a conficcarsi sulla spiaggia del Poetto – dicevamo per ridere – noi skilellè gliele rilanciavamo indietro. Invenzioni verbali e narrative da pisciarsi dal ridere, di ski-lellè casteddai fine anni '50 e tutti gli anni ' 60. Io sono quello, ho quel nocciolo dentro. Dichiaro cixiri col nocciolo del cuore. Un casteddaio burdo e corrotto che dichiara orgoglioso, come ognuno della sua d'infanzia, la sua Mammalingua.
    Volete sentire? Due esempi.

    Prima composizione poetica, raccolta nei muretti in Via Firenze, dove la cantavamo con Gavino, Salvatore, Tonino, Sergio Cocco Tataèa, e altri; e poi perfezionata in Via Generale Cagna, ancora più vicino all'Amsicora, con Ninuccio, Agostino, mio cugino Marcellino Edù ("Mincamiainculurù" – rispondeva lui), e tante volte cantata che non l'ho dimenticata mai più. È mio patrimonio. Primo documento linguistico che propongo al consesso degli accigliati Iudikes di limba per dire cixiri, e comprovare la mia ontologia sarda. Sull'aria di "Quando spunta la luna a Merchiaro". "Quando spunta la luna a Sant'Elia
    E su giarrettu cuccara in sa nassa
    S'affaccia a sa ventana sa bagassa
    T'ingurtiri s'anguidda bia bia"
    Vi posso assicurare, come poeta per bambini più noto e stimadu in su continente, Rodari torrau in terra, mi nanta, e ita brigungia, chi no è beru! (Rodari tornato in terra, mi dicono, e che vergogna, ché non è vero!), premio Andersen 2007, White Raven (cercate sul web) 2009, vi posso giurare: questa quartina è bellissima! Una così io devo ancora mangiare molto pane per saperla scrivere.
    UNICA NOTA. Nutro parecchi dubbi sulla purezza sarda, campidanese e perfino cagliaritana della locuzione "s'affaccia"; ma garantisco assolutamente sulla sua perfetta e piena appartenenza alla limba parlata fra Via Firenze e Via Generale Cagna.
    Di un'altra composizione poetica posso dare più ampio documento.
    La fonte e il territorio di reperimento sono gli stessi. Credo mi sia stata insegnata da Ninuccio, che era grasso ma inarrestabile, invincibile, carogna. (con andamento da ouverture lento e maestoso)
    S'atra dì chi ci seu passau
    Boghendi conca fia de sa ventana
    Tenia su bruncu parìara una rana
    Issu m'ha fattu subìttu azziccai
    (1)
    E deu di nau: Bairìndi Bugìnu!
    Attura attentu tui facc'e caghinu
    De non fai mera sciollorius cun mei


    (tempo dimezzato, rapido e concitato)
    Lassamind'andai - Calamì sa manu - Fill'e bagassa - Caghineri
    O ri segu su paneri...
    Po su zugu mi d'appu pigau, unu corpu 'e conca si d'appu donau
    È sa botta proibìa chi m'anti imparau a Sant'Elia
    Calincuna di' te l'insegnerò

    Stai attento perecabò
    (2)"

    BREVI NOTE
    (1) azziccai : nella grafia Unificata di Via Cagna io Ninuccio e Marcellino Edù ("Mincamiainculurù") non avremmo mai scritto "atzikkài". A dire il vero non avremmo mai scritto proprio nulla.
    (2) perecabò. Non ho fatto ricerche, perché faccio un altro mestiere, ma una certa sensibilità all'ontogenesi e filogenesi linguistica, innata e poi sviluppata nella professione, mi suggerisce che la locuzione derivi da "pei de caboni", piede di cappone; in cosa fosse offensivo esser tacciato di avere i piedi simili a quelli di un gallo mi è sempre sfuggito; non mi sfuggiva che bisognava offendersi quando ce lo si sentiva dire. Offendersi e picchiare...

    Nota del trascrittore: questa canzone la so cantare accompagnandomi con la chitarra, e quando ci troveremo se il vino è abbastanza vedrete e sentirete.
    Però...
    Offendersi e picchiare. Non è vero che quelli erano tempi felici.
    Erano tempi violenti. La virtus, il valore virile, si misurava in noi bambini in una rigida scala gerarchica di colpi, pugni, sputi, calci e schiaffi. Quello che oggi si chiama bullismo, e allora era solo forma e norma nativa di vita e giochi dei bambini nelle strade. Io ero il penultimo, in quella scala: picchiavo solo Gavino, gli altri mi picchiavano tutti. Ed ero abbastanza terrorizzato. Chissà Gavino, mischino.
    Be', quel campo di di battaglia, quel codice di maschi maneschi in trentatrè anni di continente credevo d'essermelo scordato. E invece eccoli che mi aspettavano, nell'isola, benché sotto altra forma, i corpus de conca. E ciò che è peggio, eccolo rinascere anche in me, il manesco spaventato...
    E allora faccio un passo indietro, sul problema della limba, mi ritiro e me ne torno al mio italiano. E per ora me ne resto in continente.
    Però questo scambio di colpi di lingua, questo dibattito mi è servito: ho capito dove sta la differenza, e con essa l'essenza.
    Io come sardo non sono un signore evoluto, sono grezzo e nativo e DOC come quell'infanzia di strada. Vi posso dire altre canzoncine, altri cixiri. So bene che la poesia cagliaritana conta ben altri versi e suoni e stili, che quando è stato il tempo ho letto e goduto (ricordo una bella poesia di Gaetano Canelles che perlappunto canzonava "Su maiolu"). Ma questa era la mia lingua nativa, la mammalingua di strada, non quella dei libri. Sono un signore in italiano, perché dalle strade sono passato ai libri. Come sardo sono rimasto in quelle strade. Altri forse hanno fatto la via inversa.

    Sono sardo, cagliaritano. Sono sardi i cagliaritani?
    Vogliamo, con una gigantesca sega a motore, escindere Cagliari a semicerchio e lasciarla andare alla deriva verso Gibilterra? Con Cappellacci e tutti i burdi cagliaritani incrociati con continentali commercialisti? E mia mamma mischina, che ha ottant'anni? E mio fratello che insegna inglese ai giovanotti casteddai del Liceo Artistico e ha la opel corsa? E mia sorella che insegna italiano alle medie e deve fare per obbligo corsi di sardo (chissà chi li tiene, chissà quanto prende).
    No, dài, non mandateli via dalla Sardegna, sono parenti miei.

    Proveniamo da estremi, da estremi.
    Ma sulla stessa Isola.
    E facciamoci quattro risate.
    Non sardoniche, po prexeri...
    Cixiri.


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    La fonte aperta

    Pubblicato l'11 marzo 2009 (con poche varianti) nel tag INDIPENDENZA del sito www.coronadelogu.com

    Concordo con Marcello Fois: la parte di Sardegna che ha votato Cappellacci, anche ai miei occhi la parte peggiore, non può sentirsi indipendentista perché si sente, e brama essere, dipendente. Ma aggiungo: la parte che pare ai miei occhi migliore, quella che sento più viva e creativa, quella su cui posano le mie speranze, non può sentirsi indipendentista perché è indipendente, nell'anima e nella cultura e nel mondo.
    Mi suonano tristi, vetusti e vinti gli accenti separatisti, da qualsiasi parte vengano. Suonano malinconici e introversi i canti navajos, i gridi maori, gli orgogli insanguinati dei Balcani, i colpi di mitra irlandesi proprio in questi giorni; suonano inutile dissipazione di segno e di senso, manierismo civile, accelerazione d'entropia i nomi in due lingue nei cartelli segnaletici dei luoghi, i testi nei documenti nelle lande dei bilinguismi; suonano sinistramente comici i riti dell'ampollina d'acqua sporca padano-celtica di Bossi. Sono fenomeni disomogenei, si dirà, e sto facendo di ogni erba un fascio: ma alle radici di ciascun'erba, in questo fascio, si avverte un sentore comune, una linfa amara, che sa di rinuncia e chiusura, paura e indurirsi dell'anima.

    I sistemi che cercano un rigor, una rigidità non un rigore, una consistenza perché si sentono franare e non hanno imparato a fare surf sulle frane; i sistemi che travolti dal vento globale cercano di ri-consistere a specchio di un nemico oppressore colonizzatore e invasore, di fronte a una minaccia; i sistemi che a tal fine mortificano la forza dei loro stessi giovani prospettandogli un futuro-minaccia, rubandogli il futuro-promessa che noi abbiamo avuto (Galimberti); Oriana Fallaci, e nel mio campo, la letteratura per ragazzi, ahimè la splendida narratrice Silvana De Mari, che vogliono aprirci gli occhi davanti a uno di questi nemici, e predicano invasate da furor profetico la rinuncia al relativismo, il recupero dell'orgoglio culturale e religioso e sociale del nostro occidente, un tono muscolare che ci renda tosti, noi molli e concavi, di fronte al duro e convesso Islam; donne che incitano alla durezza e al sangue, da noi in Sardegna non suona nuovo, vero?
    I sistemi che cercano una consistenza di "natzione" in territori sempre più piccoli, sempre più frammentati, perché pare che un corpo piccolo sia più facile tenerlo insieme, come un zizigorru, un lumacone chiuso nel vento della storia che sta tirando forte, anziché alzare le vele, o ricordare che cando si tenet su bentu est prezisu bentulare (*). Questo indurirsi a noce nel piccolo per resistere al vento del mondo, questo contrarre bicipiti e addominali per essere piccoli e duri e puri mi spaventa, mi rattrista, nella mia terra, e soprattutto dalla mia terra mi estrania.

    Io non andrò con loro, con nessuno di loro, sardi, leghisti, tirolesi, catalani o baschi.
    Andrò con altri, che per fortuna sono molti, dispersi, smarriti, raminghi e fratelli.
    Sono molti, per fortuna sono i più e sono ovunque, in Sardegna e nel resto dell'immenso mondo. Quando si passano accanto si riconoscono, non si chiedono l'un l'altro cixiri, o altre ardue pronunzie password maori o scozzesi.
    Può darsi che ora siano deboli, questi raminghi, coi muscoli poco tonici, poco tenuti.
    Ma mi conforta ancora, a capo degli anni, ciò che di loro dice lo Stalker, il Pathfinder, il Cercasentieri di Andrej Tarkovskij, che le vie le sapeva vedere. "Che diventino deboli come bambini,
    perché la debolezza è potenza, e la forza è niente.
    Quando l'uomo nasce è debole e duttile.
    Quando muore, è forte e rigido.
    Così come l'albero: mentre cresce, è tenero e flessibile,
    quando è duro e secco, muore.
    Rigidità e forza sono compagni della morte.
    Debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell'esistenza.
    Ciò che si è irrigidito non vincerà"
    STALKER, Andrej Tarkovskij, 1979
    Ciò che è morbido ha futuro, ciò che fluisce e scorre. E arriva inatteso, sorprende.
    Il software, per esempio, la molle industria: chi l'avrebbe detto mai che non era la pietra, la scogliera o il cemento, ma Tiscali, la sorpresa della Sardegna. Gioverà fare un giro nel sito del CRS4, l'avanzatissimo centro di studi sardo per l'Information Society, che sta preparando l'Ubiquitous Computing, l'Ubiquitous Communication, le Interfacce Intelligenti. "La visione globale – è scritto – è quella di un accesso ad internet possibile per tutti, in ogni momento e in ogni luogo, e su ogni tipo di supporto: una vera e propria Internet Pervasiva". Pervasiva, non contrattiva. Ubiqua, non limitata da limbe, tradizioni, natzioni.
    La lingua è molle, è software: Linux e Mozilla sono open source, fonte aperta, scrittura condivisa da mille amanuensi sviluppatori di tutte le razze, in mille parti del globo, che scrivono in una lingua digitale sola, la vera Lingua Standard che sta scrivendo il mondo, che non è stata imposta per legge da nessuna parte. Perché è liquida, soft, fonte aperta, e non può essere né imposta né fermata. Questo ha futuro, non i linguaggi proprietari irrigiditi nel rigor mortis vetusto dei brevetti di Windows e Mac.
    La fluidità genetica crea mondo, crea forme evolute e adatte, cioè futuro, così nella biologia come nella cultura. Lo scambio malizioso di stringhe linguistiche geniche, le identità culturali virali che si incistano in altre culture, codificando proteine, cioè generando senso, opere, mondo. Gli africani e gli asiatici e i latinos e gli slavi fra noi, di cui i leghisti e tanti altri difensori delle italiche identità dicono concessivi: stiano pure, ma devono vestirsi come noi, parlare come noi, pisciare come noi, diventare noi. Noi chi? Noi italiani o noi sardi? E invece per fortuna nel silenzio, nel forno buio del pre-culturale, costoro ci stanno cambiando. Ci stanno dando l'occasione per cambiare. E visti i chiari di luna, sarà in meglio
    La cultura sarda è viva perché è molle e fluida in noi, scorre nel sangue come una vena carsica elusiva, invisibile e potente. La stringa virale poetica in undici sillabe bilanciate - cinque di qua, cinque di là e una al centro - che mia zia Nietta da bambino mi cantava in un qualunque canto a ballu è migrata come un trattino di RNA messaggero, nel buio della mia formazione, in altre ottave che forse ho letto e forse ho scritto, in altre cellule a codificare altra poesia. E lì si è persa! Non è mai più riconoscibile, né conservabile in codici o musei, perché si è trasformata, ha generato. Non risponde più cixiri a nessuno.
    Perché la lingua è il più molle degli organi. Organo d'amore per eccellenza. Fatto solo di muscoli e nervi, cioè volontà ed azione, senza neanche un setto di cartilagine, senza supporto.
    L'impresa di trasformarla in tessuto osseo è al tempo stesso demente e disperata.

    Non mi manca, per fortuna, e mi consola la voce dei grandi sardi, padri miei.
    Per dire solo l'ultimo che ho letto, appena ieri, in un libro collettivo di scrittori sardi appena uscito per Fandango Libri ("PASSAGGI DI TEMPO", libro + DVD): in un breve racconto che altro non è se non un ragionare ventoso, bellissimo e celeste, intitolato (sic!) "Il fantasma della Sardegna", Salvatore Mannuzzu dice così. "Questa polvere impalpabile di res gestae, che rende opache le cose, questo fuggire di esse, restando uguali, è la Sardegna. Non si pensi di trovarne epifanie evidenti; e si diffidi di quelle celebrate. I segni disponibili sono minimi, le indicazioni soltanto oblique. (...) Giacché l'identità troppo nominata dell'isola sfuma: si rifugia in un'ombra, in uno stelo cresciuto su una terrazza diroccata (reperto di quale guerra, di quale pace?)..." Di quale guerra? Di quale pace? L'impresa guerresca di trasformare il muscolo elusivo della lingua in tessuto osseo, come tutte le imprese simili nei secoli, fallirà. Resterà una fonte aperta, una ferita aperta, come dev'essere, che butta sangue e senso. Una open source.


    NOTA. "Cando si tenet su bentu est prezisu bentulare", dall'inno di Francesco Ignazio Mannu "Su patriotu sardu a sos feudatarios": "quando si leva il vento è tempo di trebbiare", di lanciare in alto grano e crusca così che il vento porti via ciò che non pesa e non serve e cada al suolo ciò che pesa e serve. Torna al brano


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    Questa pagina è stata creata il 9 maggio 2011


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