CHARLOT  E
    LA  LOCOMOTIVA
    Quattro riflessioni di un autore multimediale

    Bruno Tognolini


    1 . La fulminea pazienza dei computer
    2 . Charlie Chaplin e la locomotiva
    3 . La scalata del midollo spinale
    4 . Giuseppe falegname e l'interfaccia




    1 . La fulminea pazienza dei computer

    "Certo, Cenerentola, potrai venire alla festa. Ma solo dopo che avrai diviso in bei mucchietti questo monte di fagioli, lenticchie e piselli". Oppure: "Solo se saprai arare, seminare e raccogliere in una sola notte". Che avrebbe potuto essere: "Se saprai contare quante 'e' ci sono nella Divina Commedia, in una sola notte".
    Solo un Genio delle fiabe potrà farlo. O la fulminea pazienza dei computer.

    E così le fiabe, come di quasi tutto il resto, hanno avuto presentimento del computer. Di questo Genio Stolto, o Velocissimo Idiota, che può consumare per noi compiti semplici, ma ritmicamente infiniti.
    L'istantaneo sgomento cosmico che deve aver provato ogni contadino di fronte a un campo immenso da arare, seminare, raccogliere, è forse alla radice dell'antica magica prova. La noia incolmabile di pile di piatti da rigovernare, o case intere da spostare in trasloco, muove la magia più recente di Merlino e Mary Poppins.
    Ma destino dell'uomo, per fortuna, è formulare vaghi mondi di fiaba, e poi cercare d'andarci in carne e ossa. Così, dopo l'ipotesi della prova magica, arriva il trattore, e la lavastoviglie.
    E così, dài e dài, la noia cosmica dei pomeriggi negli uffici, dove generazioni di contabili fronteggiavano compiti elementari e sterminati, per ogni giorno e fino alla vecchiaia, suscita infine il computer.
    è comprensibile, a questo punto, che l'apparizione metta un bel po' di spavento: lo ha sempre fatto. Il Genio è infido, bisogna padroneggiarlo. E il modo è sempre quello: conoscenza. Conoscere le formule magiche giuste - "password: apriti sesamo" - da Aladino, passando per Faust, fino agli inserti di Computer Facile Servo.
    Ma se conoscere è riconoscere, è anche bello pensare questo, non è vero? Che sfrega sfrega, l'elettricità della lampada d'ambra diventa elettronica, e alla fine il Servo Genio si presenta.
    Bene: meno che tutti gli altri, professori, maestre e bibliotecari per l'infanzia dovrebbero stupirsi di questo. Nella materia che studiano e insegnano è contenuta la profezia e la sua ermeneusi.
    Ripeto: è solo il vecchio Genio delle fiabe.
    Se invece poi qualcuno obietta: appunto!... Allora sì che c'è da preoccuparsi. Cos'è, pensavate che le fiabe fossero fiabe, e la realtà realtà? E come è potuto accadere, questo? Non c'è da stupirsi, allora, che abbiate paura...

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    2 . Charlie Chaplin e la locomotiva

    Ma poco male, c'è un rimedio anche per voi: arrivano i nostri, arrivano gli autori.
    Qui farò un discorso di scherzoso, gaudioso ottimismo.
    Lo so che la Rete - ci vado ogni giorno - è sempre più in mano al mercato (ai mercanti, per altri antichi paradigmi). Da ben prima, e ben più a fondo, è stata invasa la televisione. Lo so che questo mette brutalmente sotto tutela le valenze creative, e generative, di tutti i mondi della narrazione. Se la fiaba è inventata per inventare, genera prima o poi l'invenzione, come si dice sopra per il caso del Genio Computer. Se la fiaba è inventata per vendere, per bella che sia, genera - coerentemente - solo acquisti. Malgrado ciò, lasciatemi raccontare una storiella.
    Siamo in America, circa il 1915. Il cinema è nato, è un bambino, gioca. Vive nei baracconi, mostra locomotive che saltano addosso per spaventare la gente nelle fiere, in concorrenza con le montagne russe. Ora: spesso un bambino strilla per farsi badare dai grandi, che finché possono non lo prendono sul serio. Per i grandi dell'arte di allora, del teatro, della pittura, del canto, il cinema era una cosa da bambini: brividini e strilletti al luna park.
    Un salto avanti di ottant'anni: per i grandi autori di oggi, di cinema, di teatro, di libri, il digitale è senz'altro lo stesso: roba da ragazzetti pustolosi, giochini da luna park; o se si estende da venditori di divani: mercato, superficie, barbarie.
    Finche' un bel giorno arriva Charlie Chaplin, arriva al nuovo da due vecchi continenti: l'Europa e il Teatro (o il Circo). Arriva e trova un linguaggio già maturo, che però nessuno parla veramente. E che dunque, per non perder la parola, se ne sta lì adirato nelle fiere a parlare se stesso. E non avendo niente da dire, ovviamente, urla.
    Allora Charlie si siede, lo prende in mano, gli dice "adesso calmati": e lo parla.
    E fonda il Cinema.
    Lontanissimi i paragoni irriverenti: non parlo di me, beninteso, mi viene da ridere solo a pensarci. Parlo dei molti Chaplin che approderanno ai new media, e che - come me - verranno dal teatro, dai libri, dal cinema, dal vecchio continente.
    Cosa vuol dire questo ? In cosa mai la migrazione degli autori si può configurare come tutela, o rassicurazione, contro il rischio disumanante dei new media?
    Bene, in questo non posso argomentare, devo solo affermare una speranza, e cioè un impegno. Io non lo so chi è che vincerà, se il mezzo o il messaggio, il prodotto o l'opera, lo sponsor o chi... Ma di certo sarà una bella gara.
    Per dirla da scrittore per bambini: il linguaggio digitale, la sua cultura, la sua immagine di mercato, è come un warrior­robo­transformer gigantesco, pompato di androgeni software, ormai spaventoso. E noi autori gli stiamo davanti come nanetti, con gli occhialini sul naso e un libro in mano.
    Ma conosciamo un paio di trucchi millenari, che non sono per niente male. Siamo piccoli, siamo buffi, ma attenzione: come Yoda di Guerre Stellari. O Charlot che ferma le locomotive.
    Perché quel libro che abbiamo sottobraccio in realtà è un notebook, da cui parte un bel cavo seriale, che si connette a quel burattino gigante e lo fa andare.
    E questo cavo non pompa software, ma storie.

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    3 . La scalata del midollo spinale

    Come saranno, cosa racconteranno queste storie?
    "Direttamente nei vostri cervelli...". Così promette - o minaccia - lo slogan della Okosama Starr Games, che nel Natale di un futuro non lontano si appresta a lanciare il suo ultimo videogame "Nirvana" sul mercato del mondo (qui riprendo un ragionamento dal librino allegato all'ultimo CD­rom di cui sono autore). Ma appunto, nel futuro: oggi dovremmo dire "nei vostri midolli spinali". Perché?
    Perché è curioso: ogni linguaggio che nasce è condannato a ricominciare da principio, dalla clava sulla testa, a quanto pare.
    Tra i campi d'applicazione del linguaggio multimediale interattivo, accanto al "reference" delle enciclopedie e dei trattati monografici (animali, arte, etc.), figura il campo della fiction condivisa, i così detti "games". Questo linguaggio, in larga parte, è quello dei videogiochi "spara­spara": un agire basato su riflessi istantanei (occhio vede - dito clicca - nemico muore), che passa per il midollo spinale, senza bisogno dell'intervento del cervello. Anzi guai se il cervello si intromette, con le sue solite gommose riflessioni: cosa succede se un automobilista "pensa" di (come, quando, perché) frenare quando vede un ostacolo?
    I giochi "shoot 'em up" sono un'utile e ottima cosa, come del resto le frenate. Il fatto è che per l'uomo c'è dell'altro: "there are more things...", diceva, sempre in inglese, William Shakespeare. Sarà fatale, come l'evoluzione, che i giochi al computer risalgano il midollo spinale, come un fiume controcorrente, verso la sorgente, verso il cervello, e le emozioni più grandi e più scure che sgorgano lì.
    Saranno sempre più narrazioni condivise, chiameranno il giocatore a una partecipazione (attiva, ma anche passiva) che coinvolga sfere più varie e complesse della persona. Niente di nuovo, niente di sconvolgente: quelle stesse parti di noi che oggi portiamo a teatro, al cinema, tra le pagine di un libro; ma deponiamo sedendoci al computer. E il "giocatore" stesso, probabilmente, cambierà nome, in qualche altro che suonerà illustre come "lettore", "spettatore", "ascoltatore"...
    Per il momento la cosa è problematica, perché i canali di interlocuzione tra gioco e giocatore (o meglio, come dirò fra breve: fra autore e giocatore), a dispetto della prosopopea tecnologica, sono povera cosa: posso avere notizia del "mio" giocatore solo rilevando come si muove per la schermata il cursore del suo mouse, e dove clicca. Non lo vedo, non lo sento, non lo tocco.
    Ma non è che l'inizio. Presto queste barriere piatte saranno infrante, e l'interlocutore potrà parlare, muovere le mani e volgere gli sguardi nello spazio generato dal computer direttamente nei suoi organi di senso. Allora per certo, per altri anni bui, sarà nuovamente la clava: come Pinocchio appena è in vita tira calci, le nostre mani daranno pugni e pugnalate e gli occhi vedranno nemici dappertutto. Ma poi ancora risaliremo, fatalmente, e il gesto giusto potrà di nuovo essere atto, carezza, danza, e i mille segni che può la mano umana.

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    4 . Giuseppe falegname e l'interfaccia

    Allora realtà virtuale, l'avveramento della profezia, l'uomo ingoiato dalla macchina, aiuto!
    Calma, non è così.
    Gli informatici chiamano interfaccia la maschera che la macchina indossa per rendere il suo volto presentabile all'uomo. E dicono che l'interfaccia "adotta metafore": la scrivania, il cestino, le cartelle; la pistola, la cloche, i "mondi"; e così via. Dietro queste sottili larve, silenziosi e sinistri, girano gli arti inconcepibili della macchina, i software. Questa è la visione - accreditata con stordita malizia da certi guru digitali - secondo cui la macchina sarebbe di fatto interlocutrice dell'uomo.
    Semplicemente, a dispetto dei loro incubi, così non è. Un prodotto interattivo non è una macchina interlocutrice ma un testo, cioè un manufatto dell'ingegno e delle mani che alcuni uomini preparano per alcuni altri. Interlocutore dell'uomo non è la macchina, ma ancora e sempre l'altro uomo che l'ha preparata per lui.
    Perché mai, allora, quest'ultimo sente il bisogno di mascherarsi dietro un'interfaccia?
    Bene, non c'è niente di male: purché lui là dietro ci sia, e con tutto il suo peso Gli uomini si son sempre mascherati per rappresentare immagini della realtà ai loro simili. Il burattinaio è un uomo che si nasconde: tra lui e il suo spettatore l'interfaccia è il burattino. In altri casi parrebbe il contrario: per il narratore che narra "occhi negli occhi", l'interfaccia è la faccia. Però, quando narra, fa una faccia diversa. Nell'un caso e nel l'altro, il loro ingombro umano è ben presente e visibile, dietro l'interfaccia.
    Quando poi ci si rivolge ai bambini, quanto più potente è la maschera, tanto più forte dev'essere la "presenza".
    Il programma televisivo "L'Albero Azzurro" (dove ho avuto la fortuna di lavorare come autore per diversi anni) puntava le sue carte su una comunicazione "faccia a faccia", tesa a promuovere la massima presenza possibile in televisione degli adulti autori e dei bambini spettatori di fronte a loro, e il massimo rispetto reciproco.
    Gli autori di quel programma - per forestiere appartenenze ai libri, al teatro, per onestà, per boria - non si sono mai sentiti, e non sono mai stati "la televisione": eravamo davvero noi, quegli scrittori, quegli attori, quel regista. E allora, per simmetria fatata del rapporto, il bambino di fronte a noi non era un dato auditel, ma una presenza corporea concreta: quel bambino, seduto in quella cucina ("Alzati, prendi un po' d'acqua..."), che ci ascolta perché abbiam preso la parola. Nessuno si nascondeva dietro nulla.
    La stessa cosa sarà in ogni linguaggio. Una lunga processione di artigiani di nome Giuseppe, padri perplessi ma buoni falegnami, da San Giuseppe a Geppetto, ha costruito nei millenni carretti e pupazzetti per far giocare i bambini che capitavano loro a stormi tra capo e collo.
    Da quei manufatti all'avventura virtuale più immersiva, in fondo poco cambia.
    Basta essere onesti, essere bravi falegnami, essere lì.
    Gli autori saranno lì, o non saranno autori.
    Saremo lì, appollaiati dietro le interfacce, non ci sogniamo neanche di lasciar soli i bambini a fronteggiare una macchina sapiente. Perché ormai è una bugia troppo potente. Perché Pinocchio ormai è cresciuto, e i fili non si vedono più: ma ci sono, e li stringiamo saldi in mano noi.
    Insomma, alla fine di tutto si tratta di questo: nessuno, nessuno deve pensare di sfuggire alle proprie responsabilità con la scusa che fa tutto il computer.
    O davvero farà tutto qualche altro, che il computer lo manovra molto bene.

    febbraio 1997

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